BREVE VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE DELLA CULTURA AMERICANA
IL CAPITOLO 3 DOVE NON ACCADE QUASI NIENTE
Riassunto della puntata precedente
Se fossi un intellettuale di sinistra riassumerei il capitolo precedente partendo dall’impossibile traduzione in italiano del termine Working Class. Google ci dice classe operaia, ma non so per quale motivo a me suona tanto di lost in translation, da entrambe le parti s’intende. La traduzione letterale dovrebbe essere classe lavoratrice. Si perché in Inglese operaio si dice worker ‘lavoratore’. Non so se con questo s’intende il superamento delle classi, nel senso che basta che si lavori, senza distinzione, oppure perché quella anglosassone è una cultura che proprio non ha una vera consapevolezza di classe (non che in Inghilterra e in America non ci siano i sindacati e che questi non abbiano fatto le loro brave lotte a monte e valle).
Forse siamo semplicemente noi italiani che identifichiamo la parola operaio con una classe sociale distinta, strettamente legata ad un’autoconsapevolezza, ad un’appartenenza con conseguente catarsi risolvibile solo con la lotta di…
E qui non riesco a continuare (ed è la riprova che non sono un intellettuale di sinistra).
Per farla breve quando penso alla classe operaia penso al Militina, a Gian Maria Volonté e alle Super Magic Candeliz*, penso ai collettivi, ai metalmeccanici con relativo contratto sempre da rinnovare, alle 150 ore, alle lotte e contro lotte.
E se invece mi dite lavoratore penso ad un brianzolo e per estensione semantica a Berlusconi, vedete che il cortocircuito culturale è grave. E sicuramente per me l’operaio non è un cordiale e imponente caucasico senza porto d’armi (perché non serve), pronto a sparare su tutto quello che di scuro osa varcare i confini del suo giardino e del suo orizzonte culturale.
E se fossi un vero intellettuale di sinistra, ma proprio quelli che non esistono più con gli occhialini tondi alla Gramsci e la giacca di velluto (perché anche noi in Italia ce li abbiamo i nostri bravi stereotipi), racconterei il nostro amico Roy partendo dal più brutto romanzo di Philip Roth,’Ho sposato un comunista’.
In quel libro, tra le altre cose, si parla molto della letteratura americana impegnata di inizio secolo (l’altro secolo) e ad un certo punto Philip Roth sbotta (in realtà non è Philip Roth ma un suo personaggio, ma poco cambia) inveendo contro la letteratura impegnata. Il monologo fa più o meno così credo: ma basta con questa retorica della cultura operaia. Tutto quello che vuole fare un operaio è affrancarsi dall’essere operaio e magari cibarsi di cultura borghese, ma in versione discount. Date in mano la cultura agli operai e vedrete che… Insomma avete capito, in sintesi vedrete che un giorno voteranno Trump.
Il nostro intellettuale a questo punto farebbe un’invettiva contro Philip Roth dicendo che è proprio quando la classe operaia è abbandonata a se stessa, senza riferimenti, senza autoconsapevolezza di classe che inizia ad imitare, scimmiottando, i modelli borghesi, identificandosi quindi in quelle figure politiche che usano il loro stesso linguaggio per farsi comprendere e nello stesso tempo vogliono farsi ammirare per il loro successo e la loro posizione privilegiata e…
Ma son cose che già conoscete
Quindi perché parlarne? Forse pensate che mi metto a fare l’esegesi del conflitto culturale delle classi, che è una specie di conflitto di classe al cubo, solo per farmi bello e compensare la frustrazione di non essermi mai laureato?
Si, sarà anche per quello ma insomma tutta questa serie di luoghi comuni non è solo per dimostrare che anche noi italiani ce la caviamo bene con le semplificazioni ma per dire che il mio racconto dell’America inizia da un discorso semplice per arrivare fino ai piani alti del raffinatissimo salotto dell’altissima borghesia.
Infatti è proprio su di un ascensore di un palazzo signorile di Park Avenue che quella sera riesco nel giro di pochi minuti a scalare tutti i gradini (metaforicamente s’intende, perché appunto sono in ascensore) delle classi sociali americane.
Ed è proprio in ascensore che mi vien da pensare che forse è per questo motivo che negli Stati Uniti non si dice operaio ma lavoratore, perché il lavoro qui consiste proprio nell’affrancarsi il più velocemente possibile (e a Manhattan gli ascensori sono molto veloci) dalla propria classe, quindi che senso ha affezionarcisi dandogli un nome se sai che a breve non ne farai più parte. Ma facciamo un piccolo passo indietro, diciamo di una trentina di piani.
CAPITOLO 3 (quello vero)
Una lunghissima camminata dal Ponte di Brooklyn (è lì che eravamo rimasti) fino a Park Avenue.
Non c’è nessun bisogno di raccontare delle vie, dei palazzi, della gente, dell’atmosfera della Manhattan Down Town. Nessun motivo per dirvi che camminerete con il naso all’insù ma non troppo perché non volete dare a vedere che non siete del posto. Questa guida non vi spiegherà che vi sentirete come al centro del mondo ma non da residente e nemmeno da turista di passaggio ma da semplice comparsa fuori campo di un Kolossal che non vedrà mai la fine delle riprese a causa di uno sforamento di budget.
Insomma in breve non ha senso raccontarvi una storia che già conoscete di strade, macchine, palazzi e marciapiedi che avete visto migliaia di volte. Non ha senso perché fan parte del vostro immaginario anche se a New York non ci siete mai stati. E se credete che la realtà è ben diversa della rappresentazione e dell’iconografia della cultura audiovisiva di massa allora non avete capito nulla di quello che questa guida turistica sta cercando di dirvi. Il problema che anche volendo non riuscirete a passeggiare per le strade di Manhattan senza proiettare ad ogni angolo di strada il vostro film fatto delle migliaia di immagini che vi hanno raccontato questa città e questa cultura dai tempi del piano Marshall fino ad oggi. Soprattutto se avrete la presunzione di comprendere un’intera nazione ed una cultura attraverso lo spaccato di un lungo week end.
E proprio sul più bello ci fermiamo qui, senza raccontarvi nulla. Ci fermiamo di fronte all ‘awning’ blu cobalto (altra parola intraducibile, è il baldacchino sul marciapiede di fronte al portone dei palazzi signorili) di un ricco palazzo residenziale di Park Avenue. All’ultimo piano una delle più ricche famiglie ebree di New York vi sta aspettando e voi siete molto, molto emozionati.
E vorresti dire che questo capitolo finisce qui?
Voi siete appena entrati nell’atrio di questo meraviglioso palazzo déco ed un portiere in livrea d’altri tempi e, vi giuro, in guanti bianchi guarda con sospetto il vostro abbigliamento da magazzino di Piazza Vittorio e vi chiede cosa cercate. E voi dite: siamo ospiti dei Signori Goldstein. Il portiere fa una telefonata di conferma e vi fa segno che potete passare. Questo semplice gesto, accompagnato da un sorriso cordiale, ha un enorme valore simbolico. Significa che siete ammessi ai piani alti. significa che, almeno per una sera a Manhattan, potrete rilassare i muscoli del collo perché tutto quello che c’è da osservare d’ora in poi non è più in alto, ma in basso.
e come si dice nel più classico dei serial Tv: to be continued…
*questa citazione delle Super Magic Candeliz non ho voglia di spiegarla, ma è molto più pertinente di quanti sembri, per delucidazioni chiamatemi pure al 333 7780024