Capitolo 2 Il primo giorno
Nota
Per chi stesse cominciando a dubitare della mia conoscenza della cultura americana, vorrei ricordare che io negli States ci sono stato più a lungo Franz Kafka*
TORNIAMO INDIETRO DI QUALCHE KILOMETRO
All’uscita dei famosi cancelli elettrici della dogana del JFK, proprio di fronte, c’è un diner. Si un vero diner.
CHE COS’E’ UN DINER?
Per chi non lo conoscesse è un posto dove si fanno quei damn good hamburger, dove Samuel Jackson declama il salmo di Ezechiele, dove menu, tavoli, sedili in simil pelle e cibo e bevande sono plastificati, dove fingi di avere un orgasmo davanti a tutti, dove incontri in incognito un agente dei servizi segreti. Insomma avete capito. Proprio la prima cosa che vedi.
Come se all’uscita dell’aeroporto di Milano ad aspettarvi ci fossero Dolce e Gabbana, fuori da Fiumicino Er Cicoria e da quello di Palermo un picciotto con la lupara.
Che poi forse in realtà è così. Per dire che anche non volendo raccontarla a botta di stereotipi, questi si ripresentano prima ancora di uscire dal JFK.
Così che al bancone del diner ecco la vostra collega che vi aspetta con la borsa piena di formaggi e suo padre con la nuova compagna, in breve i vostri simil suoceri (e non ve l’avevo raccontata tutta sulla collega americana).
VI SENTITE GIA’ A DISAGIO PER AVERLI FATTI ASPETTARE
Subito un abbraccio un po’ forzato, sorriso un po’ forzato, quel muoversi con finte da basket a capire se gli deve dare un bacio sulla guancia (ma qui non si usa), una virile stretta di mano o un abbraccio, di quelli che sono una versione hard della classica pacca sulla spalla. Il padre è molto concentrato nel dare la migliore versione di se, di un uomo sicuro di se, che sa quello che vuole, che non ha paura della sua ignoranza (sotto una certa classe sociale nessuno in America ha paura della propria ignoranza, si può tranquillamente dire che è un sentimento che non esiste in questo paese).
Un uomo di quasi settant’anni in perfetta forma psico-fisica malgrado già alle 4 del pomeriggio stia bevendo un’acqua e vodka. Perché è uno di quelli che beve vodka come fosse acqua (o acqua come fosse vodka). E’ un bellissimo esemplare di caucasico occidentale. L’accento è del mid-west non perché lo riconoscete ma perché uno con quella stretta di mano non può che essere del mid-west. E se del mid-west non ha quell’aplombe (forse non si può usare ‘aplombe’ nel descrivere un americano, ma fa lo stesso) da working class arcingna ed affettata, ha però mani e sguardo duro di un uomo che ha a molto a cuore la consistenza misera del suo salario e la protezione dei confini del suo giardino. Ma l’uomo ha l’aria abbronzata e lo sguardo rilassato di chi ormai vive in climi più temperati del Michigan e quella leggerezza un po’ spudorata che i maschi di 70 anni hanno quando lasciano la moglie per una di 20 anni di meno e vanno a vivere in Florida, appunto.
Ma la descrizione non è pertinente. Perché l’uomo, chiamiamolo Roy ( ma potrebbe chiamarsi anche Bob), è simpatico. Il suo sorriso, la sua stretta di mano, il suo abbraccio sono sinceri, o almeno così sembrano. Perché sincerità ed ipocrisia in America sono tutt’uno, fanno parte dello stesso show, almeno fino a quando non arriva un presidente che finge, con un furbissimo stratagemma di meta-sincerità o post-ipocrisia, di dire le cose come stanno, o come la gente (o parte di essa) crede che le cose stiano o vogliono credere che qualcuno gli dica come stiano (spero di aver beccato tutti i congiuntivi).
Roy, alto 100 piedi, spalle larghe e grande sorriso. Una di quelle figure bonarie e risolute che mettono seriamente in imbarazzo le persone come voi. Una di quelle persone che se foste in ascensore veramente sareste in difficoltà e vi viene anche in mente, con terrore, che state per approdare nella capitale degli eterni ascensori.
Frasi di rito e poi in metropolitana.
La prima battuta di Roy che non sia un rituale di saluto è la seguente: “Io senza pistola mi sento nudo.”
E qui vanno a ramengo tutti i vostri propositi di non confidare negli stereotipi. Voi abbozzate un mezzo sorriso.
Pensate a vostro padre che l’unica volta che vi ha usato violenza è per schiaffeggiarvi per farvi riprendere da un inizio di sincope. Voi, che vostra madre è una intellettuale radicale e femminista che se fosse lì presente avrebbe in canna una serie di battute sarcastiche da sparare a Roy (o Bob) in tutta risposta.
In breve fate un’anamnesi di tutto il vostro albero genealogico e a partire da Ignazio Ciaia della fine del ‘700 non c’è un solo membro della vostra famiglia che ha il minimo legame culturale con l’ambiente di Roy. E siete terrorizzati all’idea che lui possa scoprire che vostra nonna era comunista.
GUARDATE FUORI…VEDETE L’ORIZZONTE?
Ma si, eh lo skyline di Manhattan, e quello? Quello è l’Empire State Building! Che già dal nome dice tutto, il palazzo dello Stato Impero, altro che Colosseo. Che proiezione.
La pellicola che diventa realtà. Un’esperienza commovente, saltate come bambini da una finestra all’altra e all’orizzonte il più grande parco giochi del mondo. Una location che si è fatta cinema e da cinema è diventata realtà. Una meta-rappresentazione che in voi ha il sapore epico del sentirsi al centro della storia.
E se aprite bene le orecchie sentite pure i cenni di una colonna sonora di John Williams* (l’altro John Williams).
Nancy, la vostra pseudo-simil-suocera, dice: “Is that the Eiffel Tower?”
Che dolcissimo lapsus. Forse fatto in mio onore, o forse, come facevano i Bostoniani, proprio appositamente come vezzo provocatorio e dolcemente sarcastico.
Nancy ripete: “Yes, it’s the Eiffel Tower” Indicando l’Empire State Building. Roy corregge il tiro. Ma no cara, è l’Empire siamo a New York.
E lei si gira un po’ infastidita con un ‘Ah!’
Io l’ho trovata dolcissima come cosa. Innanzitutto l’idea che un Americano chiamasse l’Empire torre Eiffel. Insomma significa mille bellissime cose.
Esuli nel proprio stesso paese, confusi ed impauriti ma curiosi ed affascinati. Provo ad abbracciarla con lo sguardo ma lei si vergogna, o forse no, sempre per il discorso di cui sopra per cui certi Americani non si vergognano mai della propria ignoranza.
IL PRIMO IMPATTO
Il primo impatto, all’uscita dalla metropolitana, non è stato dei più folgoranti, a parte il freddo, quello si folgorante (-10, Celsius non Farenheit).
I palazzi, i grattaceli me li ricordavo più maestosi. Perché in effetti a New York c’ero già stato, per quasi 3 giorni quando avevo 9 anni.
E sarà per le proporzioni del tempo, per le aspettative di oggi, ma la prima impressione è di essere tipo in periferia di Milano tra Quarto Oggiaro e Bovisasca, ma con molto più freddo.
Ma mi è bastato girare l’angolo che… Eccola la ramblas americana!
E di fronte a noi: il Madison Square Garden, che poi è tondo e non square, infatti non è il Madison Square Garden ma chissenefrega.
E cominciate a saltare ancora come bambini e ve ne fregate se il vostro futuro suocero vi considera già un coglione (tanto non avevate scampo) e i marciapiedi, larghi, comodi, con tutta la gente che passa indaffarata e distratta ma anche che sorride con quella sicura baldanza data dalla consapevolezza di essere al centro del mondo.
E poi gli idranti rossi. Si proprio quelli di ‘Do the Right Thing’ e poi tutto un fiume di non caucasici stanziali che non sembrano molto preoccupati dai recenti fatti politici. Se ne vanno in giro eleganti e perfettamente integrati.
E vi sentite grandi, maturi, disposti a tutto e subito nel flusso verso questo fiume in piena di speranze mal riposte e di sogni che a breve saranno incubi (ma tanto poi quella parte la tagliamo in sala montaggio). E anche i barboni, con questo damn cold! Che non han la forza di chiederti un dollaro o forse manco gliene frega. Perché a Manhattan a nessuno frega niente di niente e in un attimo neanche a voi.
Ma non è cinismo, affettazione o presunzione ma semplicemente quell’ East Coast Metropolitan Spirit che anche se voleste non potreste tradurlo.
L’appartamento che avete affittato ad una cifra astronomica è una catapecchia. Vorreste descriverlo in maniera più accurata ma è una catapecchia, quindi pace.
Tutto il palazzo ha quelle scale strette, le stesse del capitolo uno quando De Niro incontra Jodie Foster, ma non ci sono avventori dallo sguardo torvo e misterioso né tantomeno vecchi sdentati che vi chiedono quella crema al formaggio (meno male perché a differenza di Elwood ve la siete dimenticata*).
C’è una cosa che si chiama Jet Lag ma non lo sentite.
Dopo 17 ore di viaggio e 3 ore di sonno nelle ultime 48 siete vigili come non mai, ma è una veglia artificiale, iniettata di un’adrenalina che presto chiederà il conto alla vostra capacità di attenzione e di essere politically correct con il vostro futuro suocero (suspance, fondamentale nei plot holliwoodiani).
So, what do you want to do? What ever you want. For me it’s fine. Me either. And so what? Ed altri frasi di rito.
Avete sul vostro taccuino virtuale una serie di locali super alla moda consigliati da Mr Armando (di cui parleremo nel prossimo capitolo) ma sapete che non è il caso.
Allora lanciate l’esca. L’unica che può farvi guadagnare qualche punto in questa rovinosa scommessa di compiacere il lato oscuro della forza.
MA PERCHè NON UN DAMN GOOD HAMBURGER?
Diamine, siamo in America. E’ vero che Manhattan è tutta Sushi e macrobiotica (mica vero, in realtà) ma avrò diritto ad avere il mio cavolo di hamburger senza sushi, soja, nooddles e tutta quella robaccia non caucasica?
A tutti, dico a tutti, si illumina il viso. Anche alla mia compagna zen alla faccia dei 5 anni vissuti a Santa Barbara (California) per scrollarsi di dosso tutta la zavorra di un’infanzia ed un’adolescenza in Michigan alimentata a grassi polinsaturi e drive-in di periferia anche questo un bello stereotipo dalle infinite varianti: la ragazza del paesino del Kansas che scappa ad Hollywood in cerca di etc.. etc…).
E così Google ci dice che c’è un posto, a 4 isolati da qui (e da qui in poi, anche quando andrete a trovare i vostri zii a Casalecchio di Reno direte: vado a prendere il giornale, è solo 5 bloks from here).
Che sembra un niente ma gli isolati a New York sono grandi come il centro di Ferrara (che non fate facile ironia perché è più grande di quello che pensate).
E fuori fa -10 e il Jet Lag lo sentite eccome.
Niente taxi od Uber (che by the way a Manhattan funziona benissimo e i tassisti zitti e muti).
L’American Whiskey è uno sport pub come ce n’è milioni anche in Italia. Nel senso che ti siedi sui tavolacci e hai diciotto schermi per vedere tutti gli sport del mondo, o almeno quelli che contano, hockey, football americano, baseball, basket, ma non solo. C’è anche l’hockey, il football americano, il baseball e il basket. Che sono comunque sempre di più del calcio e basta.
E l’American Whiskey è solo apparentemente un rozzo diner per appassionati di sport. Ha una lista di Schotch e Bourbon seconda solo a quella del Flatiron Club (tappa dell’ultimo giorno).
E ordinate cocktail, hamburger e patatine. E a questo punto?
E a questo punto tocca parlare, damnt it! Di cosa? Eh già, voi di fronte al pistolero e la Tour Eiffel e la vostra collega che secondo me se la ride di nascosto.
Non è che avete problemi a parlare, lo sapete, ma qui manca proprio l’alfabeto di base. Così cercate di fare mente locale. Cosa farebbe Margaret Mead in questa situazione? E Malinowsky*? Malinowsky meglio di no.
E allora provate ad immaginare che questo anziano di bella presenza sia una persona come tutte le altre. Notate una linea cadente dei lineamenti dell’arcata oculare che a breve avrà una spiegazione che vi farà sembrare Roy finalmente e indiscutibilmente simpatico.
Passano in sequenza: Questo hamburger è buonissimo; Diamine, è proprio buono; yes not bad, can you save a bite for me?; Nice place by the way; well, this is a typical sport pub. We have tons of that in Florida; that’s college Basket; It’s a huge thing, really huge, you can’t believe it!
Si parla di sport, clima (non global ma local), hamburger, cocktail, vodka and water, della vostra sindrome di Gilbert ( ma come cavolo vi è venuto di cominciare a parlare della sindrome di Gilbert?) che malgrado i vostri sforzi di minimizzare ormai già credono che siete in fin di vita, e non c’è niente che mette più in imbarazzo un americano di essere in fin di vita.
POI ARRIVA IL MOMENTO
Non ricordo quando tutto è cominciato (pausa), credo si stesse parlando del suo lavoro. Roy è un ex poliziotto, poi diventato investigatore privato, in seguito ad un licenziamento a causa di non ricordo bene, credo una questione di competenza territoriale.
Io ho detto che la cosa dell’investigatore privata era cool (si, ho proprio detto ‘cool’).
Insomma da lì credo sia scattata una certa affinità, o almeno un punto di ancoraggio per un dialogo che non fosse solo ‘ che tempo che fa’.
Gli ho chiesto ad un certo punto credo, qual’era la cosa più difficile del suo lavoro, insomma da poliziotto, o forse lui ha detto qualcosa riguardo a Detroit e alla comunità black.
Poi ha parlato della certezza della pena e che in galera non ci finiva nessuno in America e io ho risposto che il 20% della popolazione carceraria mondiale è detenuta negli Stati Uniti. Credo proprio che si, qualche esca l’ho gettata, dicendo che le tensioni sociali in America sono forti e che Trump ha avuto il merito, forse inconsapevole, di rendere visibile la frattura fra classi ed etnie presunte.
E poi lui l’ha detto, così, con semplicità. Si l’ha detto. E subito dopo anche lei l’ha detto, perfino con gentilezza. Come fosse la cosa più naturale del mondo. Senza vergognarsi, come la Torre Eiffel. E’ venuto fuori senza che ce ne accorgessimo ed è sembrata una cosa naturale, perfino liberatoria.
Io ho votato Trump. Anche io ho votato Trump.’
E ce li avevo davanti, questi splendidi esemplari di Caucasici dell’Ovest.
E facevamo silenzio, guardandoli tra i rami, perché non volevamo che scappassero. Ci si esprimeva a segni e sembravano in fondo così simili ai nostri ma con una vena di leggera incoscienza che i nostri nel ’94 non avevano.
ED HO CAPITO CHE SONO COME NOI
Che in fondo Trump è come Malinowsky solo che il diario lui l’ha messo lui online e non la moglie dopo la sua morte.
E non so se chiamarlo razzismo, perché forse è riduttivo. Nemmeno paura, o disorientamento. Forse è veramente quel lato oscuro della forza senza il quale il meraviglioso plot della cultura pulp americana non può proseguire.
Perché non c’entrano i confronti. Vi ricordate che pochi mesi fa ascoltavate i comizi dell’uno oggi e dell’altro nel ‘94 e il nostro sembrava Winston Churchill? Qui siamo su di un altro piano.
E prima li ho avvicinati con facili esche dicendo che comprendevamo.
L’esca migliore è stata tipo: ma in fondo non è una cosa di razzismo ma solo una questione di disorientamento culturale. In fondo il problema c’è ed è visibile. Qui si tratta di scardinare un meccanismo di ipocrisie. Tutti ne facciamo parte. Forse a questo serve Trump. Ma ad un certo punto ho sentito come una nausea diffusa.
Le immagini di Chuck Norris a Wyatt Earp nella mia testa venivano sostituite da quelle di Chiwetel Ejiofor e di Jamie Foxx. Sentivo le urla di Amistad e la risoluzione di Dorothy Counts e ho detto no. Ho provato a spiazzarli con tre battute sapendo che non avrei colto nel segno ma ci ho provato.
La prima: ho sentito quell’intervista del ’97 in cui Trump diceva ‘se dovessi mai correre per le elezioni lo farei con i repubblicani perché hanno l’elettorato più stupido che ci sia e credono a qualsiasi balla gli racconti.’
Poi mi è uscita questa chicca che non ha capito nessuno:
‘Donald Trump is like a bad joke made by a drunk comedian in front of a sleeping audience’
Che vuol dire più o meno: Donald Trump è come una pessima battuta fatta da un comico ubriaco di fronte ad una platea addormentata’
E poi ho detto: io, guardate non credo che il problema di Trump sia che è una specie di mezzo nazista (anche se in realtà lo credevo) ma che fa dell’ignoranza un valore. Usa l’ignoranza, la sua e quella della gente, come un’arma, una cosa di cui andare fieri. E per me questo è semplicemente sbagliato.
E ho chiuso dicendo: che poi in fondo è una ruota che gira (e qui son stato molto cattivo perché sapevo dalla mia compagna che Roy andava molto fiero delle sue origini tedesche), se pensate che durante l’Impero Romano i francesi, gli inglesi e (pausa teatrale) i tedeschi erano considerati barbari, nel senso più dispregiativo del termine.
E qui Roy mi ha spiazzato. Ha ribaltato il banco.
Ha fatto una cosa che solo gli Americani con il loro genio inconsapevole sanno fare. Ha detto: “si ma anche i romani erano all’inizio considerati barbari dai greci.”
Così, come se fosse niente. Io che credevo che per Roy la storia iniziasse con la data del primo Super Bowl.
E ha continuato: perché c’è una comunità di americani (e non li ha chiamati neri o black o afroamericani, ma americani) che è stata trattata come fossero animali per più di cento anni, messi nei ghetti e sono passati dallo schiavismo alla prigione e ancora oggi quella ferita è li, malgrado tutte le cose ipocrite dette e scritte e adesso è una polveriera pronta ad esplodere.
Non è che ha proprio detto così ma il senso era quello. E allora io, siccome era il mio primo giorno in un paese straniero, siccome ho la mamma antropologa, siccome avevo il dovere nei confronti della mia collega di farmi ben volere e siccome sono anche un po’ vigliacco mi sono aperto in un grande sorriso di approvazione.
Non ero d’accordo con quello che diceva. Perché dai, Obama e tutto il resto e perché i ghetti ci sono per gente che la pensa così, che votare Trump è un ossimoro, ma ossimoro non glie l’ho detto perché non so come si dice in inglese e poi magari neanche lui sa come si dice in inglese.
Ma in sintesi ho avuto un attimo di comprensione che è continuato per tutta la sera e la mattina dopo, con una bella passeggiata al World Trade Center Memorial (commovente) e sul ponte di Brooklyn fino a che verso le due non sono partiti (per fortuna perché di più non avrei resistito) e alla fine ho pensato che come primo giorno in America non poteva essere più perfetto e contemporaneo.
E ad un certo punto verso la fine si parlava delle nostre origini e lui ho visto che tergiversava e di nuovo ho notato quella linea cadente e orientale della curva degli occhi e quasi con vergogna mi fa: si perché nella nostra famiglia c’è anche sangue nativo, Cherokee per la precisione. Che straordinario paese, LAMERICA!
Ma quello che è successo la sera stessa… ve lo racconto nel prossimo capitolo.
MORE STEREOTYPES TO COME
*Kafka scrisse il romanzo l’America senza esserci mai stato
*Il primo è l’autore della colonna sonora di Star Wars, il secondo uno scrittore americano
*Elwood (Blues Brothers), tornando alla sua camera in affitto sul cavalcavia, si ricorda della crema al formaggio che un vecchio pensionante gli aveva chiesto di comprare
*Margaret Mead è un’antropologa americana famosa per i suoi studi degli usi e costumi delle tribù delle Samoa. Malinowsky è un antropologo diventato famoso per il suo diario pubblicato dalla moglie post mortem in cui veniva fuori tutta l’insofferenza e l’ipocrisia razzista taciuta nei suoi saggi