Breve viaggio verso la notte della cultura americana. Capitolo 1

In Mentors and Lectures, Wine Insights & Thoughts by Alessandro PepeLeave a Comment


breve-viaggioBreve viaggio verso la notte della cultura americana

Capitolo 1

A voi non danno fastidio quelli che passano un weekend in un paese straniero poi tornano e pretendono di sapere tutto su cultura e costumi de luogo? Eh beh sai i Giapponesi sono così e cosà. Oppure quelli che comprendono tutto il continente: gli africani, devi sapere… questo dopo aver passato 4 giorni a Sharm-El-Sheik. Ho sentito anche degli americani dire: vedi, gli Europei hanno uno stile vita che…  Al ritorno da una settimana in Norvegia ed includendo nelle valutazioni un unico insieme fatto di Greci, Siciliani, Norvegesi e rovigotti.

Tutta sta boriosa premessa per dire che la guida che vado a presentarvi è frutto di un lavoro sul campo durato ben più dello spazio di un week end.

Quindi senza false presunzioni ecco il nostro affresco sulla cultura americana

Intanto precisiamo: ho vissuto a New York dalle 3.30pm del 4 marzo 2017 alle 7.35am dell’8 marzo del 2017. Poi ho avuto una più breve esperienza, ma non meno coinvolgente, a Washigton DC dall’ 1.35pm dell’8 Marzo 2017 alle 9.30am del 9 Marzo 2017. Potrei anche includere le esperienze di vita, non meno significative, di Baltimore e Filadelfia, viste dai finestrini dell’autobus nel viaggio New York-DC e ritorno e sorvolo, letteralmente, sul viaggio in aereo lungo tutta la costa nord orientale degli Stati Uniti e parte del Canada e della Groenlandia. Ma una guida turistico-culturale è efficace solo quando riesce a focalizzare su poche e significative tappe del viaggio.

LAMERICA

E’ grande e vasta. dicono. Ma c’è davvero bisogno di visitarla tutta per farsene un’idea? E poi ne abbiamo tempo e voglia? Costa anche un sacco di soldi, lamerica, e pochi di noi al giorno d’oggi possono permettersi di scorazzare in lungo e in largo in uno dei paesi con la più alta concentrazione di SUV e grassi polinsaturi del mondo.

Ecco allora una guida che vi permetterà di scoprire tutto quello che volete sapere di questo gruppo di stati variamente uniti in meno di 5 giorni.

IL VIAGGIO

Siete sull’aereo da Zurigo a New York (Zurigo perché il volo diretto vi sarebbe costato il doppio) e cominciate il vostro viaggio. Undici ore di volo, scalo escluso, che vi permetteranno di fantasticare su aspettative e sogni ed aspirazioni del paese delle opportunità. Avete a disposizione un monitor con una fornita lista di film in anteprima ma preferite 4 pastiglie di Valeriana e una di melatonina e con l’occhio socchiuso ecco un dormiveglia dove girano un film un po’ confuso fatto di un montaggio delle migliori e peggiori scene di film e serial TV che hanno allattato il vostro inconscio e medio conscio negli ultimi 44 anni (se siete più giovani o più vecchi aggiustate il tiro).

Le immagini sono tante e confuse, ma provo a ricordarne alcune

-La ballata di Bo a Luck (Hazzard) con loro che saltano in macchina dal finestrino e la tipa americana con cappello da Cow boy e camicetta jeans arrotolata in vita

-Le prime pubblicità del Burger King sullo sfondo della Milano da bere (sul piano prettamente cronologico arrivato in Itlaia prima di Mc Donald)

-Mean Streets e i primi grandi film di Scorsese incluso Robert de Niro che porta la stagista a vedere un film porno in Taxi Driver e le scale strette che portano al tugurio dove Jodie Foster si prostituisce

-I night club di Goodfellas dove Riotta paga delle bottiglie di Dom Perignon facendo scivolare pezzi da 100 dollari senza neanche controllare il conto

-I marciapiedi di New York che a seconda dei casi vogliono dire: working class indaffarata, business men al telefono, solitudine, freddo, socialità, incontri casuali, storie d’amore, disperati e barboni, Tiffany a colazione, violenza e molto ma molto charme.

-Le scene di Friends e di quei bar che servivano caffè e vino nello stesso tazzone e che hanno sancito la morte dell’american dream (da lì nascono invece i menu della nuova gastronomia romana con l’hamburger di mozzarella, il muffin di calamaro, il pancake con scarola e sciroppo d’acero, etc…)

-I diners e le vetrate alle Hopper e frasi del tipo: servite bistecche?Serviamo bistecche? Qui facciamo the best damn steaks di tutta la contea, che è molto  mid-west e poco Manhattan ma va bene lo stesso

-Poi c’è the Summer of Sam, Do the right Thing, le scalette con atrio delle villette a schiera stile vittoriano second hand, quei sobborghi vicino ai parchi e sicuramente Central Park e la gente che fa jogging e sembra la più bella metropoli del mondo fin quando un barbone ubriaco, con la sua bottiglia di Teachers in un sacchetto di carta, cerca di portarvi via tutto quello che non avete.

E poi l’unica vera scena, l’unico film che rivedete nella memoria per intero ma con un fermo immagine di te e Diane Keaton oppure te e Woddy Allen a seconda dei gusti su quella panchina che guarda al ponte di Brookling e lo skyline di Manhattan (per poi scoprire una volta lì, con immenso disappunto, che quello non è il ponte di Brooklin). State li seduti a contemplare fino a che il rollio dei carrelli sull’asfalto della pista dell’Aeroporto non vi fa svegliare di soprassalto.

La strana sensazione adesso, dopo questa sequenza infinita di immagini a dire: ma che ci vado a fare in America, io sono 44 anni che vivo in America. Cresciuto e vissuto in quella cultura. So tutto. So che se ho dei problemi con mio figlio mi basta andare nel giardino dietro casa e giocare a lanciarmi la palla da baseball col guantone o se non sono caucasico posso fare dei canestri davanti al garage. So che quando chiudo l’armadietto di scuola devo guardarmi le spalle dai bulli che mi fanno lo sgambetto e tutti ridono (perchè TUTTI ridono, perché gli stronzi in america, con la a minuscola, non sono i bulli ma quelli che stanno fermi e ridono quando ti fanno lo sgambetto). So che se devo fare il remake di Profumo di Donna devo umiliare il grande Gassman con un monologo finale di Al Pacino che son sicuro piace tanto a Donald Trump. So che non devo prendere una sedia per arrivare sopra all’armadio dove papà tiene la pistola, ma tanto ad un certo punto lo farò, perché dite quello che volete ma Stanislavskij ci aveva ragione (se nel primo atto compare un fucile al terzo atto sparerà). So che i non caucasici sono tutti in un modo o nell’altro delle macchiette anche quando sono seri: ciondolanti e rumorosi rapper, mafiosi italiani buffi e violenti, ispanici permalosi, cinesi nervosi, giapponesi ossequiosi, russi spietati e cinici. Tutti quasi sempre variamente più bruttini e bassi  e cattivi degli Americani caucasici provenienti dall’Europa dell’Ovest.

Se tutti questi vi sembrano un’accozzaglia di stereotipi allora dico: mi sta bene, e quindi? Lo so che ci sono anche Cassavetes, John Williams, Nicholas Ray, Bill Viola, Al Ahsby, Thomas Pincheon, Bill Hicks, Noam Chomsky, etc… E certo che mi da fastidio quando ti arrivano delle rappresentazioni dell’Italia così povere e stereotipate dalle persone che meno ti aspetti. Ma mi passate la cosa che son proprio gli Americani (con la A maiuscola) ad aver fatto dello stereotipo uno straordinario strumento di gestione della comunicazione di massa? Con gli stereotipi ci fanno tutto: guerre, rivoluzioni (poche), elezioni presidenziali, cultura e contro cultura, informazione e controinformazione (poca anche quella).

Beh adesso stai esagerando. Io mi riprendo la Lonely Planet. Questa guida fa schifo.

Aspettate un attimo! Il viaggio deve ancora cominciare.

COME SAPERE TUTTO DELL’AMERICA IN MENO DI 5 GIORNI

Arrivate all’aeroporto JFK. Prima di imbarcarvi avete messo tutti i vostri formaggi, bottiglie di vino e sott’olii nella borsa della vostra collega americana e avete fatto bene. Perché lei passa la dogana in 10 minuti e voi state in fila. Davanti ci sono 15-20 persone per il controllo passaporti ma la fila non si muove. Passano 25-30 minuti ma niente. I primi della fila hanno una pelle olivastra, le donne col velo in testa e gli uomini con una barba incolta. Due semplici elementi che vi fanno credere che se dovrete passare dopo di loro in america (ancora con la a minuscola) non ci entrerete mai. Agli sportelli c’è solo un poliziotto-impiegato. Uno solo per tutto l’aeroporto di New York. Al confronto la sede di Equitalia sulla Colombo è una passeggiata di salute. Aspettate, in coda, aspettate. In fondo questo è il sacrifico per il privilegio. Non significa che l’America non è un paese libero perché tecnicamente voi in America ancora non ci siete. Pensate ad Ellis Island e tutto il resto. Ed ecco un altro film, se possibile ancora più stereotipato dell’altro, fatto di valigie di cartone, di dialetti stretti, di facce scavate, di foto sbiadite, intervallate da una pessiam computer grafica con la faccia congelata di Di Caprio che se ne va giù con tutta la baracca e in Ammerica non ci arriva proprio.

Arrivano altri due impiegati e hanno la stessa faccia stanca dei pubblici funzionari dell’ufficio postale di largo Arenula ma con in più una pistola e un ghigno di frustrazione che, sempre stereotipando, leggete come razzismo. E se non rischiaste di mancare di rispetto alle tragedie con la A maiuscola vi sentireste come in coda in un ghetto nella Germania degli anni ’30.

Per un attimo, per squallido opportunismo, state dalla parte dei poliziotti e vi scappa questo pensiero agghiacciante: ma non possono far passare prima gli Europei, diamine? E vi figurate la scena di questi poliziotti che in base al colore della pelle o del vestito selezionano la gente in coda e dicono: tu passi prima. Perché alcuni dei non caucasici davanti alla fila potrebbero essere Europei. E allora capisci che non funziona, che anche quel micro credito figlio di uno sguardo antropologico non giudicante che avete dato a quella paura americana non funziona.  E quindi pace. Aspettate. Dopo 40 minuti osservate quei 5-6 potenziali terroristi in coda e una avrà ottant’anni e vi ricorda vostra nonna, così risoluta e tranquilla al contempo. L’altro, un vecchietto in carrozzella, ha lo sguardo basso e remissivo e pensate che anche volendo non ce l’ha la forza non dico di imbracciare un Kalashnikov (magicamente passato dai 300 controlli fatti per arrivare qui) ma nemmeno per premere il pulsante della bomba nascosta nelle ruote della carrozzella. Ripassate tutte le statistiche che dicono che la maggior parte degli atti terroristici sono opera di residenti stanziali, insomma di puri americani, di post- pseudo- simil-islamici che hanno imparato a sparare indiscriminati sulla folla proprio crescendo con quei film americani di cui sopra, o peggio imitando americani super caucasici che per passatempo imbracciano fucili come fossero giocattoli e sparano sui compagni come fosse uno scherzo. Ma come si dice in questi casi: tutto il mondo è paese.

ADESSO BASTA! QUANDO INIZIA IL VIAGGIO?

Eccoci. Il vostro turno. Vi chiedono le impronte digitali, non una due volte, anzi 3. La macchina non funziona, le vostre impronte non funzionano, lo sguardo del poliziotto-impiegato non funziona. Vi giudica, vi chiede perché siete qui con lo stesso tono con cui un agente dell’Fbi vi interrogherebbe con un faro sparato in faccia. Improvvisamente l’enorme hall del JFK diventa una stanza senza finestre, con un tavolo ed una sedia di metallo e davanti a voi un agente in borghese con tazza scura di caffè apparentemente comprensivo e in piedi, nervoso, il poliziotto cattivo. Eccolo, un altro film. Ma perché tutte ste proiezioni? E’ un controllo legittimo, da parte di uno stato che difende i propri valori. Quell’impiegato-poliziotto non assomiglia per niente ad un’agente dell’FBI ma più che altro ad un bonario frequentatore di diners e donuts e hotodog da strada, di biglietti per i Giants in loggione ed innocue sparate razziste ma come miglior amico proprio un afroamericano (Est Giorno, macchina della polizia appostata in una strada del Queens).

E allora passate. Passate quel confine virtuale. In verità c’è un altro filtro. Un’ultima richiesta di documenti, un ultimo controllo. Ma cos’è uno scherzo? Il cuore batte all’impazzata. Come in fuga di mezzanotte. Fate uno scanner mentale al vostro zainetto.

-due libri di Elizabeth Strout, uno in Inglese e uno italiano

-L’Adalgisa e altri racconti di Carlo Emidio Gadda

-Due calzini sporchi (che sarebbe facile fare la battuta dell’arma impropria ma non la faccio)

-Uno spazzolino

-Vari carica batterie

-Voi stessi

Niente di strano, illegale, inopportuno. Siete a posto. Ma non vi sentite a posto. Non sono i calzini, né i libri in un paese che non ha più librerie e i calzini come le perfette arcate dentarie sono tutti splendenti. L’unica cosa che sentite inopportuna del vostro bagaglio è l’ultima della lista. E’ proprio quel voi stessi, il vostro non essere americani che vi fa sentire a disagio e i vostri denti storti. L’essere non inclusi, non parte di una comunità che non vi vuole. E  le vostre ghiandole sudorifere emanano degli aromi illegali che i poliziotti segugi sentono e così tra cento fermano solo voi.

Cosa siete venuti a fare? Turismo. Per quanto tempo? Solo 4 giorni. E per 4 giorni avete solo un paio di calzini sporchi? E lo spazzolino. La verità è che il mio bagaglio c’è l’ha mia moglie, Americana, che è già passata (che meravigliosa bugia, adesso si che mi sento un terrorista). E lui sorride alla parola americana, insomma non so se sorride ma la faccia si rilassa e mi dice con un gesto: per questa volta passi, non sei dei nostri, ma passa.

Eccoli i cancelli automatici della libertà. Fuori il mondo, quello vero, non quello immaginato e proiettato da migliaia di film e serial e format e la magia semplicissima di quei talk show dove lui sta da un lato con una tazza di caffè e l’intervistato in poltrona risponde a domande ovvie  che fanno un po’ ridere ma neanche tanto, ridete più che altro perché vi sentite in imbarazzo per lui.

E allora capite che non avreste mai potuto fare il produttore televisivo. Perché se alla fine degli anni settanta un tipo che somiglia al vostro noioso vicino di casa Signor Letterman vi propone la seguente:

-Allora c’è una scrivania e due poltrone io invito gente più o meno famosa e la intervisto

E cosa avreste fatto voi? Avreste detto: questa è un’idea che sbancherà tutti i format televisivi di tutto il mondo per i prossimi 40 anni?

Ma certo che no. Avreste consigliato al Signor Letterman di tornare a potare le siepi e 40 anni dopo ci sareste rimasti di sale a vedere che Donald Trump era stato eletto presidente. Perché voi, come me non siete capaci di fare previsioni.

Perché questa è la differenza tra noi e gli Americani: noi non ci curiamo dell’ovvio. Noi siamo snob nei confronti dell’ovvio e del banale. Per noi gli stereotipi sono delle rozze rappresentazioni della realtà, per gli Americani invece gli stereotipi sono la realtà e con essi ci fanno una barcata di soldi. Non hanno cultura classica e se ce l’hanno non è una zavorra che gli castra tutte le bellissime ed ovvie idee che hanno. Niente del tipo: ah questo è già stato fatto. Nessuno a dire a Faulkner che Joyce l’aveva fatto prima forse perché nessuno sapeva chi era Joyce. Nessuno a dire che non basta una macchina a mano e un jump cut per fare Godard o non fare la fermentazione malo-lattica nello Chardonnay per fare uno Chablis.

L’idea geniale di creare una community stereotipo-dipendente così che lo stereotipo diventa parte integrante del vissuto di ognuno di noi. Non distinguiamo più dal quel circolo vizioso dove non sappiamo se il cinema imita la vita, se la vita imita la brutta televisione o alla fine, grazie ai social,  se ormai facciamo parte del casting di un happening audiovisivo omnicomprendente tutti i media del mondo frullati come un milk shake e ordinati al bancone da adolescenti con quella voce ancora bambina e quell’aria da finto duro. Poi da dietro di nuovo il bullo che fa lo sgambetto allo sgabello perché per un attimo vi siete dimenticati che oltre agli armadietti bisogna stare attenti anche agli sgabelli. E ancora tutti ridono, tutti si tranne Lorraine che anche se siete un perdente è innamorata di voi, forse proprio perché siete un perdente che si riscatterà. Perché Lorraine sa come va a finire la storia quando stenderete Bif nel parcheggio della scuola.

E LAMMERICA E’ QUI, SOTTO I VOSTRI PIEDI

Vi basta un AirTrain fino a Jamaica Station e poi Subway fino alla Down Town Manhattan e in un viaggio che durerà meno di un secondo (in realtà più di un’ora e mezza) eccovi nel centro dell’Impero con tutta la voglia di vedere gente vera, marciapiedi veri, palazzi veri, strade vere, storie vere. Sciacquarvi dalla testa tutte ste stucchevoli immagini post holliwoodiane. Le braccia aperte verso la Grande Mela.

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